di Dario Marchetti
I videogiochi possono dare vita ai nostri sogni così come alle nostre peggiori paure. E da aracnofobico ancora oggi mi chiedo perché così tanti sviluppatori scelgano di inserire giganteschi ragni nei loro titoli. Spaventosi, certo, ma non quanto i più oscuri meandri di una mente umana sull’orlo della follia. Ed è proprio lì, visore per realtà virtuale alla mano, che vuole condurci Transference, esperimento di casa Ubisoft pubblicato su PC, Xbox One e Playstation 4.
L’avventura ci cala dentro una simulazione virtuale costruita da Raymond, un geniale neuroscienziato che sembra aver scovato il metodo per trasferire una coscienza umana all’interno di un ambiente digitale. Utilizzando come cavie la moglie e il figlioletto. Esatto: Transference è un gioco dark che più dark non si può, un titolo che non ha paura di affrontare temi che di virtuale hanno ben poco. Grazie a degli interruttori sparsi qua e la nella casa di famiglia, la nostra prospettiva infatti salterà di volta in volta da quella di Raymond a quella dei suoi familiari. Consentendoci di osservare la storia da più punti di vista, un concentrato di aspettative, delusioni, gioie e dolori. Sì perché Raymond, lo si capisce ben presto, non è un marito modello ma un violento padre padrone, che in preda alla pazzia ha recluso la sua famiglia (per non dire di peggio) in casa per farne porcellini d’india per il suo esperimento. E qui ci fermiamo per evitare spoiler.
In termini audiovisivi, Transference è tra le esperienze più immersive mai viste. Passando di personaggio in personaggio, infatti, cambia anche l’ambiente circostante. O meglio: ci si ritrova sempre nella stessa casa, con dettagli però molto diversi. Nei panni della moglie, una brillante concertista costretta a interrompere la carriera a causa del marito, l’abitazione è costellata da lettere minacciose e ricordi, ormai sfumati, della sua vita sul palcoscenico. Nei panni di Raymond, invece, i muri sono ricoperti da formule e gli armadi pieni di computer, a testimonianza della sua morbosa ossessione. Saltare da una coscienza all’altra però serve anche a risolvere gli enigmi della casa, con oggetti e indizi presenti solo in alcuni scenari, costringendoci a mappare mentalmente i vari ambienti per indovinare cosa fare, ma soprattutto attraverso gli occhi di chi.
La forza di Transference sta anche nella scelta, coraggiosa, di utilizzare attori veri per rappresentare i suoi personaggi. Lo stesso gioco si apre con un videomessaggio di Raymond, seguito poi da tanti altri filmati che accompagnano l’avanzare della partita, come ulteriori frammenti di una vita familiare ormai andata in frantumi. Per fortuna l’esperienza dura poco meno di tre ore, un tempo giusto per consentirci di calarci in questo altroquando, senza uscirne mentalmente e fisicamente esausti. Per i più fifoni, Transference è giocabile anche senza visore. Occhio però: anche in quel caso la sensazione di strisciante inquietudine non andrà via facilmente. A conferma del fatto che, realtà virtuale o meno, la mente umana rimane la più terribile e spaventosa delle armi.