di Dario Marchetti
Dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica ne aveva già parlato un certo Walter Benjamin. Chissà cosa avrebbe detto allora il filosofo teutonico se avesse conosciuto l’odierna era del codice, che per sua stessa natura è mutevole, espandibile e replicabile. Anche perché in campo videoludico, dopo decenni di “remaster”, cioè vecchi titoli riproposti con qualche miglioria grafica, è ormai il momento dei “remake” veri e propri, con titoli del passato fedelmente ricreati, spesso non dai loro autori originali, all’interno di nuovissimi motori grafici. E’ il caso di Shadow of the Colossus, titolo cult del giapponese Fumito Ueda ora disponibile in formato 4K su Playstation 4.
Dagli al Colosso
Long story short: un ragazzo arriva a cavallo in una lontana terra proibita, dove le leggende raccontano di una forza in grado di riportare in vita anche i morti. E’ qui che il giovane Wander giunge con l’obiettivo di salvare Mono, ragazzina vittima di un terribile sacrificio. Una resurrezione che, come promette l’ambigua entità chiamata Dormin, sarà possibile solo pagando un grosso prezzo. E comunque previa la distruzione dei 16 maestosi Colossi che vagano per queste lande. Un canovaccio semplice, fatto di suggestioni più che di intrecci, che ben delinea le motivazioni del protagonista consentendo a noi giocatori di affrontare il gioco con il proprio passo. Tutto in piena linea con lo stile minimalistico che Ueda ha contribuito a rendere celebre. Quindi, bando alle ciance, sarà meglio dire subito che le atmosfere, le emozioni e i brividi evocati dal titolo uscito nel 2005 su Playstation 2 sono ancora tutte lì. Anzi, semmai tornano ancora più potenti, grazie a un impianto grafico stellare (su PS4 Pro si può scegliere se favorire la fluidità di gioco o il dettaglio visivo) che risolve anche alcune incertezze della versione originale, già rimasterizzata su Playstation 3 dagli stessi Bluepoint Games, autori anche di questo remake.
Imitation Game
Questo Shadow of the Colossus, estremamente fedele all’originale, nasce però come opera di certosina imitazione. Gli sviluppatori non hanno passato il vecchio gioco sotto un filtro che ne migliorasse il comparto visivo (come succede in molti casi) ma hanno ricreato cespuglio per cespuglio, sasso per sasso, e così via, il capolavoro firmato da Ueda. Che, è bene sottolinearlo, non ha avuto grandi ruoli in questa operazione. Se per tanti giocatori, soprattutto quelli che non avevano mai provato l’esperienza di Shadow of the Colossus, il remake diventa quindi un’opportunità di godersi un titolo altrimenti poco accessibile. Ma per altri, quelli duri e puri, puzza di violenta eresia, viste anche le piccole libertà che Bluepoint Games s’è presa, dall’introduzione di un nuovo oggetto sbloccabile al miglioramento dei controlli, la cui passata anti-intuitività era considerata non un errore, bensì una scelta di design voluta e oculata.
Sacro e profano
Sacrilegio o miracolo? Qual è, a conti fatti, la migliore versione di Shadow of the Colossus? Difficile rispondere, anche perchè la verità, come al solito, sta nel mezzo. Ma da videogiocatori coscienti e informati, che guardano a questo mondo con un occhio che va oltre il semplice intrattenimento, non possiamo non rilevare che la mutevolezza sia parte stessa dei videogiochi, e del loro codice sorgente. E che forse, come frecce scoccate da Zenone, ognuna di queste versioni è una fotografia, uno screenshot di quello che, nel bene e nel male, quel videogioco poteva, sapeva e voleva raccontare al momento della sua venuta al mondo.