di Dario Marchetti
Wolfenstein II: The New Colossus è uno sparatutto adrenalinico, bombastico e orgogliosamente esagerato. I nemici, come da tradizione, sono i “soliti” nazisti, cattivi per eccellenza che da metà ‘900 a oggi sono stati sconfitti e ri-sconfitti in ogni medium narrativo possibile e immaginabile. Niente di nuovo sotto il sole, se non fosse che la seconda creatura di Machine Games, studio svedese che nel 2014 ha rilanciato la saga che fu di iD Software (quelli di Doom e Quake), risulti al momento uno degli utilizzi più coraggiosi e politici, nel senso migliore della parola, dell’universo videogioco.
La svastica sul sole
Il gioco riprende le fila del precedente, con il capitano B.J. Blazkowicz ancora impegnato nella lotta contro un regime nazista che in questa linea temporale non ha perso la seconda guerra mondiale ed ha conquistato anche gli Stati Uniti. Un set narrativo che pesca a piene mani da The Man in the High Castle di Philip K. Dick, certo, ma che a questo giro si intreccia indissolubilmente con dialoghi, personaggi e situazioni che farebbero contento il Tarantino di Inglourious Basterds, in un’escalation di assurdità pulp che da una sparatoria su sedia a rotelle arriva al faccia a faccia con Hitler. Sì, perché la magia di questo videogioco è quella di riuscire a farci non solo divertire nello sgominare, a colpi di fucile e granate, questo ucronico Reich, ma anche e soprattutto nel farci preoccupare del perché e del come lo si sta facendo.
Di padre in figlio
Al centro di questa partitura videoludica c’è infatti la violenza, nelle sue molteplici declinazioni e insensatezze. Quella di un regime nazista che ha schiavizzato mezzo mondo, stritolandolo in un pugno pronto a schiacciare ogni forma di libertà. Ma anche quella di un padre, il padre del protagonista, un uomo duro e spietato, che picchiava la moglie, un’ebrea di origine polacche, e il figlio, magari perché “sorpreso” a giocare con una bambina di colore sulle sponde di un fiume, nelle sterminate campagne del Texas. The New Colossus prende quindi un personaggio monodimensionale, il soldato americano che uccide i nazisti, e lo trasforma in un essere umano, intrappolato in un circolo vizioso di violenza che genera altra violenza. Il male, ci racconta Wolfenstein II, non proviene dal vuoto pneumatico, non è un agente senza nome. Ma ha radici grandi e che arrivano in profondità, al centro dell’essere umano. Per trovarsi di fronte all’orrore, insomma, non c’è bisogno di aspettare l’avvento dei nazisti, ma basta guardarsi alle spalle, leggere i libri di storia. E non è un caso che una delle scene più importanti del gioco sia il ritorno di Blazkowicz alla sua casa di famiglia, una resa dei conti col passato combattuta più a parole che a colpi di pistola. Un momento intenso come pochi e che in qualsiasi altro sparatutto sarebbe risultato quasi ridicolo, ma che qui rappresenta il picco più alto della sceneggiatura.
Make politics great again
Wolfenstein II è quindi un gioco dichiaratamente politico, soprattutto nel suo non aver paura di alzare l’asticella della provocazione intellettuale e prendere posizioni ben precise. In un momento storico nel quale il suprematismo bianco è tornato ad alzare la testa negli Usa, risulta quantomai felice e inquietante la coincidenza che vede Blazkowicz aggirarsi per le strade di una cittadina dove gli incappucciati del KKK si fanno dare lezioni di tedesco da ufficiali nazisti. E che allo stesso tempo nei ranghi della resistenza ci sia una Black Panther (siamo infatti negli anni ‘60), circondata da altre donne forti e lontanissime dagli stereotipi con le quali oggi le vediamo rappresentate in tv o al cinema. Come Anya, compagna del protagonista che nonostante i gemelli che porta in grembo rimane in prima linea a combattere, o Caroline, rimasta fino all’ultimo a capo della resistenza nonostante un corpo ormai spezzato dalla guerra. E poi il “nuovo colosso” del titolo, ovvero quella Statua della Libertà che, come celebrato della poetessa yankee Emma Lazarus, accoglieva (e accoglie?) quelle “masse infreddolite desiderose di respirare libere”.
Meglio soli che male accompagnati
In termini di giocabilità c’è poco da dire, ma solo perché la formula di Machine Games è ormai perfettamente rodata, fra controlli perfetti, movimenti veloci e scontri a fuoco divertenti come pochi altri. Wolfenstein II rappresenta uno snodo fondamentale per gli sparatutto, dimostrando che anche tra un proiettile e l’altro si può raccontare qualcosa di valido, così come per i titoli da giocatore singolo, che negli ultimi tempi scarseggiano in termini di qualità e quantità. Gli anglofoni parlerebbero di “benchmark”, noi invece preferiamo “punto di riferimento”, nella speranza che la lezione di Blazkowicz e compagni arrivi forte e chiara ad altri sviluppatori: i videogiochi devono sapere, e potere, osare.