Red Dead Redemption 2 è un mondo, non una simulazione

 

di Dario Marchetti

Scrivere di Red Dead Redemption 2 è un compito ingrato. Perché l’ultima creazione di Rockstar Games è sbarcata su console dopo una lunga gestazione e anni di hype totalmente fuori controllo, tanto che bastava qualche brandello di screenshot o un’immagine puramente promozionale per scatenare il visibilio dei videogiocatori di mezzo globo. Livelli di attesa meritatissimi, per carità, visto anche il livello qualitativo del predecessore e in generale la reputazione stellare di casa Rockstar. Ma che proprio per questo rendono difficilissimo avvicinarsi a questo mondo con lo sguardo privo di giudizi precostituiti.

E potrei anche star lì ad elencare una sequela di numeri straordinari, dalle migliaia di persone che ci hanno lavorato, al numero di ore impiegate per lo sviluppo, a quello degli attori che hanno prestato la voce e alla quantità di animazioni presenti nel gioco. Oppure il budget stellare superato da vendite ancora più stellari, anzi, con il weekend d’apertura più ricco di sempre un prodotto di intrattenimento. Cifre che insieme alla vastità del mondo di gioco non basterebbero a raccontarne la profondità e probabilmente nemmeno farebbero giustizia a ciò che davvero rende grande quest’opera. Che pure non è priva di difetti “meccanici”, tra controlli spesso poco reattivi e un’interfaccia utente poco intuitiva e difficile da leggere al volo, soprattutto nelle situazioni più concitate.

Quando si parla di titoli open world il paradigma di base è che più grandi sono, più ore richiedono per essere completati, più divertenti sono da giocare. RDR2 è gigantesco, ma non tanto nelle dimensioni, quanto nelle ambizioni. L’ambizione di creare una fetta di mondo, uno squarcio temporale nella storia di un luogo specifico in un momento specifico e convincerci che ci sia qualcosa lì dentro, al centro del labirinto, degno della nostra attenzione. Un motivo per affezionarci senza remore al protagonista Arthur Morgan e all’intera banda di Dutch van der Linde, alle loro disavventure, alle loro umanissime miserie e debolezze. Un mezzo per metterci davanti a delle scelte morali o immorali, scegliere se aiutare qualcuno o farlo fuori a sangue freddo, consci che non c’è nessuno allo spioncino per giudicare il nostro operato, se non noi stessi.

Dicevamo l’ambizione di creare un mondo, ma attenzione, non una simulazione. Per quanto scritti bene, i personaggi (e gli eventi) di Red Dead Redemption 2, da quelli principali fino agli NPC più insignificanti, non sono infatti dotati di intelligenza artificiale. Rockstar Games non ha voluto prevedere ogni futuribile possibilità e, lo ribadiamo, questo non è un parco giochi dove dare sfogo a ogni ferale istinto per poi assaporare il gusto delle conseguenze. Non siamo dentro Westworld, tanto per rimanere perfettamente in tema. Gli sviluppatori hanno puntato invece sull’immersione, sul cercare di rompere il meno possibile quel flusso d’attenzione che, almeno per qualche ora, ci illude di essere lì, a cavalcare nelle steppe, a rapinare banche e cacciare animali. Lo capiamo dalle animazioni elaborate al millimetro, dai dialoghi, dalla luce che filtra tra gli alberi al mattino e dai passi lasciati nella neve. Da alcune scelte di sano realismo, come il non poter avere addosso decine di armi da fuoco oppure non poter saltare, magicamente, da un punto all’altro della mappa (non come in altri videogiochi almeno), scegliendo cavalli, carrozze e treni per gli spostamenti. E così via.

Il protagonista del primo Red Dead Redemption era indiscutibilmente John Marston, nel suo disperato tentativo di sopravvivere uccidendo, pezzo dopo pezzo, testa dopo testa, il suo passato e con esso i suoi amici di un tempo. Gli stessi che abbiamo imparato proprio a conoscere in RDR2, che essendo un prequel ha un respiro più ampio, oserei dire corale. Un grande romanzo storico, ecco. E forse il vero protagonista del gioco, in fondo, è il mondo stesso. Un mondo virtuale, falso, necessariamente limitato, ma con una sua logica spietata, una sua temporalità, una sua cinica autonomia. Nulla dentro questo titolo promette ricompense fantomatiche, potenziamenti straordinari o gadget esclusivi. In questo mondo aiutare il prossimo oppure abbandonarlo a se stesso è quasi sempre una nostra scelta, dettata dal carattere o dalla forza della storia. Ignorare qualcuno o qualcosa non ci porterà alcun malus, se non quello di aver curiosato dentro quel fotogramma di umanità digitale.

La voglia di completare una missione, almeno per chi scrive, è arrivata sempre dal voler vedere cosa ci fosse oltre la collina, quale sviluppo sarebbe arrivato per il personaggio di turno, come e cosa sarebbe cambiato scegliendo di agire in un mondo anziché in un altro. Alcune missioni mi hanno “chiesto” di andarmi a fare un bicchiere con un amico, altre di passare una nottata attorno a un fuoco per raccontarci vecchie storie. In cambio non ho avuto nemmeno un dollaro bucato, ma la convinzione di aver conosciuto un pezzo di mondo in più. E che qualcosa, dentro quel mondo, da un’altra epoca in cui le cose erano più semplici e allo stesso tempo molto più complicato, mi stava dicendo qualcosa. E che da qualche parte, in qualche altra versione di questa realtà virtuale, qualcuno ora sta facendo una scelta diametralmente opposta alla mia, abbandonando il saloon per andare a rapinare qualche innocente. E che il mondo, questo o quel mondo, andrà avanti anche quando toglieremo le mani dal controller e spegneremo la console. Sipario.

 

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