di Dario Marchetti
Sarebbe molto facile bollare Code Vein come l’ennesimo epigono di Dark Souls. In poco meno di dieci anni il titolo culto di From Software, divenuto a tutti gli effetti un genere a sé, sembra aver infettato le menti di sviluppatori giapponesi e occidentali, generando una lunga lista di figli e cugini che non sempre ha regalato grosse soddisfazioni, scadendo qualche volta nel manierismo puro. Nel caso di Code Vein, ai primi trailer pubblicati il popolo dei gamer aveva prontamente emesso la sentenza: Dark Souls ma coi vampiri giappi in stile anime. Caso chiuso?
Obiezione, vostro onore. Perché se è vero che il gioco di Bandai Namco pesca a piene mani dall’impostazione “soulslike”, al contempo riesce a trovare una propria via, declinando quegli elementi ormai familiari ai propri personalissimi scopi. Bando alle ciance: da Dark Souls vengono mutuati lo schema di combattimento, alto livello di difficoltà, i boss che danno filo da torcere, il concetto dei falò (punti di salvataggio che causano però la resurrezione dei nemici) e degli oggetti curativi limitati, così come una “valuta” da raccogliere uccidendo mostri e riutilizzare per salire di livello. Su ogni singolo punto però Code Vein aggiunge un pizzico di personalità: i falò, o meglio i loro equivalenti, servono anche a liberare una porzione di mappa da una fitta nebbia; il combattimento si arricchisce di skill speciali legate a punti magia, da ricaricare soprattutto sferrando attacchi speciali contro i nemici; non saremo legati a una singola classe, bensì affidati a un sistema che ci consentirà di scegliere tra più di 20 impostazioni, ognuna con le sue forze e debolezze; e non saremo mai soli, perché ad accompagnarci ci sarà sempre un alleato di nostra scelta, elemento che qualche volta facilità un po’ troppo il lavoro, soprattutto coi boss.
Ma se Dark Souls era fondamentalmente un gioco volutamente criptico, con una storia raccontata a spizzichi e bocconi, tra dialoghi sibillini e descrizioni di oggetti, Code Vein punta moltissimo su una narrativa limpida, tenendoci all’oscuro quanto basta per spingerci ad arrivare fino in fondo. Anche perché si, da prodotto nipponico Code Vein forse esagera un po’ nel design dei personaggi (il nostro avatar è personalizzabile fino all’unghia), ma la storia è tutto fuorché un fattarello vampirico dalle sfumature emo, come qualcuno avrebbe potuto pensare. Anzi, racconta in realtà di un mondo caduto in rovina per mano degli stessi umani, che ora si ritrovano incagliati in un ciclo infinito di morte e resurrezione, ciclo che col passare degli anni cancella ricordi e razionalità, trasformando tutti in bestie senza ragione. Non dura nemmeno decine e decine e decine di ore, il che per me è un vantaggio, e le ambientazioni sono tutte molto ispirate: si parte dalla classica metropoli devastata e si arriva persino su quello che una volta era il fondo dell’oceano, passando, tra le altre, per una labirintica cattedrale gotica che a tutti, nessuno escluso, farà tornare il ricordo della perfida Anor Londo, location iconica proprio di Dark Souls. Di cui Code Vein è indubbiamente figlio, lo ripetiamo, ma un figlio che per nostra fortuna ha deciso di non fare esattamente lo stesso lavoro del padre.