di Dario Marchetti
Su queste pagine digitali abbiamo più volte parlato di remake e remaster, che qualche volta sono un’operazione di recupero doverosa, un magico stratagemma per far vivere e rivivere un titolo nel corso delle generazioni, schivando l’obsolescenza programmata di software che spesso e volentieri invecchiano male. Qualche altra volta sono poco più che mere operazioni commerciali che mordono alle caviglie della nostalgia, denaro facile succhiato dalle tasche di giocatori desiderosi di rivivere i brividi dei bei tempi andati (salvo poi rimanere delusi). C’è poi una terza via poco battuta, anzi, praticamente deserta, che si manifesta quando si guarda al passato per rimasticarlo con le mandibole del presente e l’apparato digerente del futuro prossimo.
Una descrizione alla quale risponde perfettamente Resident Evil 2. No, non il gioco originale del 1998. Non il remake, non il remaster, ma una rilettura completa di uno dei capostipiti dell’horror videoludico. Che oggi, vent’anni dopo, rivive in una forma riveduta e corretta, una nuova pelle in grado di ricoprire la carne putrefatta degli zombie d’antan e farli sfilare come modelli d’alta classe, pronti per essere fatti a pezzi da un pubblico tutto nuovo (e tutto vecchio). Capcom aveva fatto qualcosa del genere già nel 2002, con la rilettura del primo Resident Evil attraverso un comparto grafico rifatto da zero, che però conservava ancora le celebri telecamere fisse. Stavolta però l’asticella è ancora più alta, perché oltre a ricreare tutto da zero, gli sviluppatori hanno cambiato il punto di vista, spostandolo alle spalle del personaggio, stavolta dotato di un sistema di puntamento mutuato dal modello Resident Evil 4 (e successori).
Giocare a questo nuovo Resident Evil 2 è come tornare sui luoghi dell’infanzia e scoprire che quella spiaggia che ricordavi immensa in realtà è poco più di una piccola striscia di cambia. Solo che stavolta oltre ad essere cambiato tu è cambiata pure la spiaggia. E allora ritornare nei saloni e nei corridoi della stazione di polizia-barra-museo di Raccoon City significa accettare che la paura di una volta, quella delle porte che si aprivano lentamente tra un caricamento e l’altro, degli zombie difficili da colpire, delle munizioni da razionare, è stata sostituita da un’altra paura. Più cinematografica, più sensoriale, meno legata ai controlli inutilmente ostici e più al contrasto tra buio (tanto) e luce (poca), così come alla potenza delle immagini e dei suoni (qualcuno ha detto Mr. X? E i Licker dove li mettiamo?). Un terrore diverso, per un pubblico diverso. Non per questo migliore o peggiore.
Il lavoro grafico è stato pazzesco, punto e basta. Non adoro il nuovo design scelto per Leon e Claire, i due protagonisti, ma è innegabile la qualità delle animazioni, soprattutto quelle facciali, e delle scene d’azione, così come la minuzia nel ricreare (e ampliare) ambienti che eravamo abituati a vedere solo come farraginosi sfondi pre-renderizzati. Che sia giusto o sbagliato rivangare il passato, anziché guardare al nuovo, all’inedito, è un argomento di discussione sempre valido. Diciamo però che operazioni come questa, che si contano sulle dita di una mano, ci fanno propendere per il giusto e per il sacrosanto, perché un capolavoro non si nega a nessuno. E ai pischelli di oggi, che avranno tempo e modo per godersi anche l’originale, ci si potrà sempre rivolgere con tono saccente, ricordando loro che ai bei tempi lo stick analogico era un lusso, l’accadì un miraggio e che gli zombie erano molto, ma molto più bastardi.