Bandersnatch: Black Mirror, i videogiochi e il libero arbitrio

 

di Dario Marchetti

Oltre che geniale deus ex machina dietro la serie tv Black Mirror, Charlie Brooker è un gran furbacchione. Perché con Bandersnatch, film-episodio disponibile su Netflix, ha inaugurato l’era dei contenuti tv interattivi: all’interno della storia ci viene infatti chiesto, di tanto in tanto, di fare una scelta tra due opzioni (col telecomando della smart tv, o col dito, in caso di smartphone e tablet). Scelte che andranno a influenzare, più o meno, l’esito della storia e dunque anche il finale. Insomma l’intrattenimento on-demand incontra le storie a bivi, cartacee prima, elettroniche poi, dei bei tempi che furono.

E non a caso Bandersnatch è ambientato negli anni ‘80, con la storia di Stefan, ragazzo che mira ad entrare nell’olimpo dei programmatori di videogiochi trasponendo in forma elettronica il romanzo a bivi “Bandersnatch” di Jerome F. Davies, scrittore geniale e pazzo, ossessionato dalle teorie del complotto e dalla possibile esistenza di universi paralleli. Ma dicevamo della furbizia di Brooker: l’autore di Black Mirror stavolta ha utilizzato il mondo videoludico non tanto per farne un commento sulla società contemporanea (come fece l’episodio Playtest della stagione 3) quanto più per mettere sotto scacco l’idea di libero arbitrio. Bandersnatch urla “videogiochi” a gran voce da ogni sua inquadratura, tra citazioni evidenti e riferimenti oscuri, ma allo stesso tempo ne è quantomai lontano. Perché di quel mondo sfrutta l’estetica e alcuni principi di base, senza però approfondirli mai davvero. E perché, senza fare spoiler pesanti, bastano pochi bivi per iniziare a capire che qualcosa non quadra. Che non c’è un vero obiettivo da raggiungere. Che molti bivi sono irrilevanti. E che, ad esempio, ritornando su una scelta passata per riparare a un errore, il protagonista ricorderà qualcosa del percorso precedente. Arrivando persino ad accorgersi dell’esistenza di qualcuno (o qualcosa) che controlla ogni suo passo e decisione.

Bandersnatch insomma è un gioco di prestigio, una trappola per topi. Perché tra finali “seri” e altri paradossali, Brooker ci imprigiona in un gioco di scatole cinesi, illudendoci che le scelte fatte col telecomando abbiano una qualsivoglia importanza sull’andamento della storia. E arrivando, in alcuni punti, a farci sviluppare un terribile dubbio: saremo anche noi protagonisti di un film interattivo in mano a qualche divertito spettatore? Un pensiero inquietante, certo, ma che in campo videoludico non trova riscontri, anzi: anche di fronte alle più rosee promesse di mondi infiniti e libertà d’azione totale, ogni videogiocatore in cuor suo sa che sta entrando in un mondo finito, dove il libero arbitrio esiste sì, ma solo nei limiti imposti dal programmatore. In sostanza una sonora pernacchia a chi, dopo l’uscita dell’episodio, si sta spellando le mani nel digitare feroci invettive contro ipotetici sacrilegi nei confronti del mondo videoludico. La vera domanda, sostiene Brooker, è se anche questa nostra vita non sia la partita di qualcun altro, lo “specchio nero” di un’altra esistenza in cerca di intrattenimento.

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