Fallout 76, l’apocalisse è bella solo se condivisa

 

di Dario Marchetti

L’apocalisse, specie se nucleare, ha un fascino perverso tutto suo. C’è qualcosa di morboso e allo stesso tempo di eccitante nell’idea di un mondo che smette di esistere per poi rinascere dalle proprie ceneri radioattive. Da vent’anni la serie Fallout (il primo episodio risale al 1997) interpreta questo sottogenere letterario in chiave videoludica, sfruttando le meccaniche dei giochi di ruolo per raccontarci la vita dopo la caduta delle bombe. Tutti giochi eccellenti per meccaniche e qualità di scrittura, ma tutti pensati per un giocatore singolo. Almeno fino a Fallout 76, appena sbarcato su console e pc con una missione mica da poco: trasformare la più solitaria delle esperienze in un viaggio corale. Una roba che, inutile dirlo, ha suscitato la gioia di molti e la furia cieca dei puristi.

Questo episodio della saga è importante prima di tutto per una questione temporale: Fallout 76 prende il via nell’anno 2102, appena 25 anni dopo la guerra termonucleare. Il che lo colloca in prima posizione a livello cronologico, 60 anni prima di Fallout e circa 200 prima di Fallout 4. Tutto inizia con l’apertura del Vault 76, uno dei tanti giganteschi bunker costruiti negli Stati Uniti per preservare i padri fondatori di una nuova America post-nucleare. Il gioco, con una mappa quattro volte più grande rispetto al predecessore (ed era già enorme!), è ambientato nella regione dell’Appalachia, West Virginia, ricca di biomi e ambienti molto diversi tra loro, dalle fumose regioni minerarie alle verdeggianti foreste, passando per montagne innevate e distese desertiche. C’è molta più vita di quanto si possa immaginare, nonostante la devastazione dell’atomica.

Come impianto di base, 76 ricorda molto da vicino Fallout 3 e 4. Il nostro personaggio può utilizzare armi da fuoco o da corpo a corpo, indossare armature di fortuna oppure le potenti armature atomiche e saccheggiare oggetti di ogni tipo, utilissimi in fase di riciclo per costruire pezzi di equipaggiamento. A differenza di prima però, oltre al livello di salute e di radiazioni, stavolta il gioco ci chiede di tenere d’occhio anche fame e sete, non proprio una cosa facile in un mondo nel quale acqua e cibo non contaminati valgono più dell’oro. E proprio questo aspetto “survival” ci ha fatto storcere il naso: non è tanto un problema che i due indicatori scendano davvero rapidamente, quanto il fatto che in un gioco online (e dunque impossibile da mettere in pausa) il principale nemico non siano le creature mutanti o la mancanza di acqua pura, ma un sistema di menu inutilmente e incomprensibilmente ostico. Rimasto praticamente lo stesso dei predecessori, dove però ci si poteva prendere tutto il tempo per calcolare con calma ogni azione, anche in combattimento.

E lo stesso problema si fa sentire nella gestione del peso degli oggetti trasportabili, visto che superato un certo limite ci sarà impossibile correre oppure utilizzare il trasporto rapido. Nei menu manca un sistema di ordine o filtraggio degli oggetti, che magari sarebbe stato utile per trovare subito quelli più pesanti e scartarli con poche mosse. Interfaccia dunque da rivedere, anche se in un gioco online le patch sono all’ordine del giorno, e la speranza è che Bethesda ci metta quanto prima le mani per costruire un sistema che non vada contro il giocatore. Bene invece il sistema di progressione: a ogni livello si sceglie di alzare di un punto uno tra sette valori, assegnandogli carte collezionabili per sbloccare abilità e vantaggi. Un sistema originale e, soprattutto, molto flessibile.

Veniamo all’aspetto online, motivo di terrore per molti appassionati e legato a doppio filo con la componente narrativa del gioco. Bastano poche ore con Fallout 76 per rendersi conto che, altri giocatori a parte, gli unici personaggi coi quali si viene a contatto sono robot oppure registrazioni di umani morti da tempo. Questo perché secondo Bethesda i veri protagonisti stavolta siamo noi, e a noi dovrebbe toccare il compito di relazionarci con gli altri (massimo 24 utenti per server) costruendo così una narrativa tutta nostra. Difficile dire se sia un bene o un male. Nella mia esperienza, avere appena 24 giocatori in una mappa così enorme significa non distruggere quella sensazione di isolamento e sopravvivenza tipica della serie, interrompendola però ogni tanto con qualche incontro fortuito, magari trasformandolo in un’amicizia o uno scontro (ci si può uccidere anche tra giocatori, con regole molto specifiche). Dall’altro il mondo di gioco risulta svuotato di personalità, abitato unicamente da automi e mutanti assetati di sangue. Il che però torna ad avere molto senso se si considera che i primi colonizzatori di questa nuova Terra post-nucleare siamo proprio noi.

L’altro timore dei fan di vecchia data riguarda la scrittura, giudicata non alla pari rispetto al passato. E questo è inevitabilmente vero, per i motivi di cui dicevamo poco fa. Personalmente ho trovato delle lunghe quest davvero interessanti, come quella dell’Overseer, la direttrice del nostro Vault che ha lasciato il bunker prima di tutti, disseminando qui e là messaggi per noi. E poi la storia dei Fire Breathers, un gruppo di umani dedito a scoprire fino in fondo l’origine degli Scorched, una specie mutante introdotta da questo capitolo. Così come quella delle Mistress of Mystery, un gruppo segreto di “supereroine” dedito ad aiutare il prossimo, fondato da un’attrice che per anni aveva interpretato il ruolo in una celebre serie di radiodrammi. Ma l’assenza di personaggi coi quali dialogare rende, secondo alcuni, il tutto meno coinvolgente. Per altri, come chi vi scrive, è risultato invece entusiasmante: la sensazione è quella di raccogliere i cocci di un mondo e di persone ormai morte, cercando di raccogliere la loro eredità e portare a compimento le missioni che si erano prefigurate. Cosa c’è di più nobile ed eroico?

Ma dicevamo l’interazione tra giocatori può essere ambivalente, risultando in un’alleanza estemporanea o duratura, oppure in un violento scontro uno contro uno. Al momento l’endgame, cioè l’attività dedicata ai giocatori di più alto livello, è quella di infiltrarsi in uno dei tre silo ancora attivi e lanciare una testata nucleare su un punto a scelta della mappa, creando una zona ricca di aberrazioni potentissime e portatrici di bottini succulenti. Attività complesse che, volenti o nolenti, richiedono un grande sforzo collaborativo per essere portate a termine. Senza dimenticare l’importanza del C.A.M.P., un magico macchinario che ci consente di portare e trasportare magicamente l’accampamento che andremo a costruirci, insomma una casa a portata di dorso, come un guscio di tartaruga, nella quale riposare ma anche coltivare e produrre risorse utili alla sopravvivenza. E da difendere, inutile dirlo, con le unghie, i denti e una buona dose di torrette smitraglianti.

Fallout 76 non è dunque un gioco privo di difetti. In rete i giudizi di fan e critica si sono divisi tra stroncature feroci ed entusiasmi per la nuova formula. La verità, come sempre, sta nel mezzo. Noi crediamo che in quanto titolo online 76 può ma soprattutto deve migliorare in tanti piccoli grandi aspetti, e che la sua vita andrà giudicata nel lungo periodo e non solo nei mesi successivi all’uscita. L’avviso, per i duri e puri, è che a immaginare 76 come un Fallout 3 o 4 dotato di componente online si fa un grave errore di valutazione: siamo davanti a un titolo che, nel bene e nel male, ha una identità tutta sua. Speriamo solo che dall’attuale status di piccolo bruco nucleare riesca presto a trasformarsi in una scintillante farfalla radioattiva.

 

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