di Dario Marchetti
Quando si parla di giochi di guida, il 99% delle persone oggi pensa a Gran Turismo o Forza Motorsport. Io, nel mio infinitamente piccolo, ricordo invece le sale giochi con Outrun e Ridge Racer, ma soprattutto quel capolavoro eterno che risponde al nome di Mario Kart. D’altronde con la simulazione, col tuning e coi tempi record da battere al millisecondo non ci sono mai andato d’accordo. Sarà per questo che Need for Speed: Payback, ultimo capitolo di una saga nata praticamente vent’anni fa, è stranamente riuscito a incuriosirmi.
The Fast and the Furious
Come era lecito aspettarsi, Payback è stato fortemente influenzato dalla roboante saga cinematografica di The Fast and the Furious. Qui la storia ruota attorno a tre piloti, ognuno con la sua specialità, in cerca di riscatto e vendetta contro un feroce cartello delle corse clandestine che tutto può e tutto controlla. Sia chiaro: parliamo di una trama che fa il minimo indispensabile e con dialoghi nella norma. Nulla di eccezionale, ma comunque meglio del precedente Need for Speed, dove tutte le scene di intermezzo legate alla storia erano state girate con attori veri, con risultati decisamente più disastrosi. Insomma, non siamo proprio ai livelli adrenalinici di Dominic Toretto e compagnia, ma nemmeno ai tormenti del passato. La trama fa quello che serve in un titolo del genere: darci un pretesto per premere a tavoletta sull’acceleratore.
Come un cavaliere
L’aspetto interessante di Payback è il suo accomunare le peculiarità di un gioco di guida con quelle di un gioco di ruolo. Anche qui c’è una gigantesca mappa da esplorare, quest (in questo caso corse, spesso davvero rocambolesche) da completare una dopo l’altra per arrivare al boss (un pilota particolarmente bravo), che una volta sconfitto ci regalerà fama e punti esperienza. La nostra auto, anzi le nostre auto (in tutto sono 74), sono di fatto cavalieri in armatura metallica: attraverso un sistema di carte potenziamento sarà infatti possibile modificare le componenti, aumentando l’efficacia del veicolo a seconda della necessità. Con tanto di bonus aggiuntivi nel caso in cui si utilizzino più pezzi provenienti da uno stesso produttore. Insomma, al posto dell’elmo c’è il motore, al posto della spada le sospensioni, ma il concetto di base rimane quello. Ottima anche l’esperienza social: basta un tasto per scattare al volo una foto oppure entrare nella modalità fotografica, fermando il tempo per poi modificare inquadratura, colori e altri parametri. Foto facilmente poi condivisibili con la community del gioco e sulle più note piattaforme. Anche l’occhio, d’altronde, vuole la sua parte.
Addio alla noia
Considerata la vastità della mappa di Payback, le cose da fare non mancano. A partire dalle corse, divise in cinque tipologie diverse, ognuna con le sue auto e i suoi obiettivi. E poi i tanti diversivi disseminati qui e là, come rampe di salto, sfide a tempo e autovelox, che in questo caso vanno “affrontati” a velocità ben oltre il limite consentito. Tutte attività che contribuiscono a sbloccare gli “shipment”, casse che contengono oggetti cosmetici, denaro e pezzi utili a costruire altri potenziamenti. Come altri giochi di questo periodo, anche Payback soffre quindi della sindrome da “loot box”, ovvero questi pacchetti digitali che contengono oggetti casuali e che, per chi lo desidera, sono acquistabili anche con denaro reale. Nulla di necessario oppure obbligatorio, certo, ma che comunque va inevitabilmente a incidere sul meccanismo di progressione all’interno del gioco. In seguito alle polemiche scoppiate su Star Wars Battlefront II (di cui presto vi parleremo su queste pagine), anche gli sviluppatori di Payback hanno quindi rimodulato i loro sistemi per fare in modo che anche senza tali acquisti si ottengano più punti esperienza e denaro, così da non creare giocatori di serie A e di serie B. Di fronte a una muscle car di stampo americano, insomma, dovremmo essere tutti uguali.