Tekken 7, la Dynasty delle mazzate in salsa giapponese

 

di Dario Marchetti

Partiamo da un dato di fatto: il 99% dei videogiochi in circolazione propone situazioni irreali, scaturite dalla fantasia dei creatori o dalle opere a cui essi si ispirano. Ma c’è una bella differenza tra l’invenzione di un futuribile mondo fantascientifico, che seppur irreale mantiene una sua coerenza interiore, e la goliardica assurdità di certi titoli, soprattutto giapponesi. Tra i quali Tekken 7, ultimo capitolo della lunga e fortunata saga di picchiaduro nata nel 1994

Come ogni simulatore di mazzate che si rispetti, il gioco offre la possibilità di fare sfide in multigiocatore locale oppure online, sfidando così i migliori lottatori in circolazione sul pianeta. Tekken 7 però introduce anche una modalità storia mai vista prima, interamente dedicata alla famiglia Mishima, l’equivalente nipponico dei Carrington di Dynasty. Scontro dopo scontro, il gioco utilizza il punto di vista di un reporter per raccontare la storia del feroce Heihachi, che tentò più volte di far fuori suo figlio Kazuya, che si trasformò in un mezzo demone, che ebbe un figlio di nome Jin, anche lui indemoniato, che alla fiera di Tokyo il nonno comprò. Se siete confusi, aspettate di giocarci in prima persona, tra missili terra-aria respinti al mittente con un semplice calcio, misteriose sette di alchimisti veneziani, robot da guerra che ballano la kalinka e così via. Il risultato è un racconto che non si prende mai sul serio, puntando anzi sulle più plateali delle esagerazioni. E va benissimo così.

Certo, il 95% dei giocatori appassionati di Tekken si è affezionato al gioco soprattutto per le sue prodezze tecniche, apprezzandone il sistema di combattimento profondo che pure qui viene impreziosito da nuove meccaniche. Esiste però un 5% di persone, come nel caso di chi scrive, che si è innamorato della saga in età adolescenziale, ipnotizzato da un videogame che comprendeva (e comprende tutt’ora) nel suo cast un finto Uomo Tigre, un clone di Bruce Lee, un ballerino di capoeira, un panda, un canguro coi guantoni da boxe e un ninja in grado di volare grazie a una spada-elicottero. Un’assurdità a tutto campo sulla quale Tekken ha felicemente costruito la sua identità, senza mai allinearsi ai canoni di quello che era considerato “cool” in occidente. Il perché di tutto ciò lo si capisce guardando una delle tante fotografie del papà della serie, Katsuhiro Harada, che al pari di molti geniali game designer nipponici sembra un personaggio di fantasia uscito da qualche manga. Cento di questi Tekken, Harada-san!

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