di Dario Marchetti
Un ragazzino, probabilmente un naufrago, si risveglia senza ricordi sulla spiaggia di un’isola misteriosa. Fermi lì: non sto parlando di Link’s Awakening, mitico episodio di Zelda per il GameBoy. Ma di Rime, ultima fatica dello studio spagnolo TequilaWorks, che dopo le tinte dark dell’apocalittico Deadlight cambia completamente tono e passa al puro technicolor. Sì perché oltre al ragazzino di cui parlavo, uno dei protagonisti di Rime è il colore vivo e vibrante che tocca ogni angolo di questa isola che non c’è.
Diciamolo subito: in termini di gameplay Rime non introduce elementi innovativi o sorprendenti. Il fulcro del gioco sta soprattutto nell’esplorazione, accompagnata qui e là da puzzle che, tranne che in certi casi, a qualsiasi giocatore di media esperienza risulteranno risolvibili in pochi istanti. Il punto di forza di Rime è allora senza dubbio nelle atmosfere, a metà tra il sogno e il mistero, che pescano a piene mani da grandi capolavori precedenti come Ico, Journey e The Witness, tutti titoli nei quali il mondo di gioco era importante almeno quanto il protagonista stesso (e in alcuni casi anche di più).
Dall’azzurro accecante del cielo, ai verdi rigogliosi della vegetazione e passando per il bianco dei tanti, misteriosi edifici che campeggiano sull’isola, Rime risulta allora un vero spettacolo per gli occhi. Un dipinto digitale così bello da far dimenticare quasi in toto i difetti di cui parlavamo. Per fortuna, nonostante l’assenza di super colpi di scena e complice una trama essenziale, arrivare in fondo alle sei ore che in media servono per raggiungere il finale non risulta un’impresa noiosa. Anche perchè qualche volta persino nei videogiochi è lecito prendersela con calma, staccare le dita dal grilletto e lasciarsi trasportare dalle correnti di questo mare poligonale.